Tentative Paintings 2020-2022
Evgeny Merman
A cura di Ilan Wizgan
14 maggio - 6 agosto 2023
Evgeny Merman: Tentative Paintings.
Chi, per la prima volta, visita i magazzini di materiale militare usato in occasione di una grossa vendita, potrebbe incorrere nell’errore di pensare che le guerre, le cui spoglie giacciono sparse per l’intero enorme magazzino prive di ordine e gerarchia, appartengano già alla storia dimenticata della società umana. È stato in un magazzino di questo tipo, che Evgeny Merman ha scoperto mucchi di vecchie tende militari, piegate, bruciacchiate dal sole, piene di buche e recanti sbiadite iscrizioni. Le tende lo hanno affascinato, evocando associazioni, da un canto, con la guerra e la sopravvivenza e, dall’altro, con i viaggi in famiglia nella sua natia Ucraina nel periodo dell’infanzia e della gioventù. Essendo il pittore solito alla preparazione in prima persona delle sue tele grezze, egli ha subito riconosciuto il potenziale intrinseco in quelle tende, acquistandone la massima quantità permessagli dal denaro che aveva in tasca.
La preparazione delle tende da utilizzare come tela per i quadri ha comportato il loro lavaggio, asciugatura, raddrizzamento, il taglio e il cucito con un filo rosso, tutto all’interno di un processo che simula la cura delle ferite. Una volta pronte le tele per la pittura, ha avuto inizio un processo lavorativo in parte spontaneo e in parte programmato in anticipo, avvalendosi l’artista di immagini provenienti da diverse fonti – ricordi, contesti biblici e altre origini culturali, esperienze passate, illustrazioni prese da riviste e vecchi schizzi –, che hanno tutte trovato la propria collocazione sulle tele. Nel farlo, all’artista sono venute in mente le vaste pianure della Russia, oltre alla storia dell’Esodo dall’Egitto e delle peregrinazioni degli Israeliti nel deserto, situazioni di preghiera e accettazione, immagini di redenzione e soccorso, riferimenti antisemiti e all’Olocausto, e altro ancora.
Il linguaggio pittorico di Evgeny Merman è caratterizzato da grandi gesti colorati, da pennellate rapide e da un dialogo pittorico tra pieno e vuoto, tra le macchie di colore e il telo grezzo non trattato. Influenze e reminiscenze di capolavori si trovano nei suoi quadri, assieme a illustrazioni, fumetti, poster e alle copertine di riviste, in maniera da eliminare la gerarchia tra le diverse discipline e mezzi. I suoi quadri, sia quelli in mostra per questa occasione, che altre opere su tessuti di lino e cotone, hanno un carattere nomade: non sono montati su telai di legno, ma arrotolati uno sopra l’altro come tappeti. È così che si spostano da un paese e l’altro, da una mostra alla successiva, ed è così che vengono mostrati sulla parete. Forse questo deriva anche dalla biografia personale dell’artista: nato in Ucraina, egli è emigrato da adulto in Israele, paese che ha lasciato dopo alcuni anni per vagare nel mondo durante una ventina di anni, vivendo talora a Hong Kong, negli Stati Uniti e in Canada, e facendo infine ritorno in Israele, dove oggi vive. O forse questo peregrinare è connaturato all’essenza del suo giudaismo, alla natura nomade del popolo ebreo, dal loro Esodo dall’Egitto sino ai giorni nostri.
Nel corpus delle opere qui presentate, molti fili, visibili o nascosti, legano insieme le tele. Un primo filo è biografico, connettendo le diverse stazioni della vita dell’artista, dall’infanzia alla maturità e alla genitorialità. Un secondo filo è nazional-storico, riferendosi, invece, a diversi capitoli nella storia del popolo d’Israele.
Un terzo filo è religioso, giudeocristiano, e connette i valori e le etiche condivise dalle due religioni. Un quarto filo è sociopolitico, legando insieme i destini dei rifugiati provenienti da diverse zone di conflitto nel mondo, a cominciare da quelli ucraini in fuga dal terrore dell’invasione russa del loro paese in questi giorni, proseguendo attraverso le storie dei rifugiati provenienti dall’Asia e dall’Africa, che hanno cercato l’asilo in Europa negli ultimi dieci anni, fino ad arrivare al problema dei rifugiati palestinesi, uno dei grandi ostacoli alla possibile soluzione del conflitto Israelo-arabo.
La parola Ohel (tenda) ha un significato speciale nella cultura ebraica. Indica una casa o un luogo di residenza, oppure un gruppo di persone con caratteristiche comuni – una famiglia estesa o una tribù –, come possiamo dedurre dai diversi contesti di utilizzo di questo termine all’interno della Bibbia. La combinazione Ohel Moed (Tenda oppure Tabernacolo della Congregazione) indica il tabernacolo che conteneva l’Arca dell’Alleanza con, al suo interno, le due tavole date agli Israeliti sul Monte Sinai, dove erano iscritti i Dieci Comandamenti; per cui essa suggerisce anche la presenza di Dio. Durante le peregrinazioni degli Israeliti nel deserto del Sinai, era questo il luogo dove gli appartenenti alla comunità si presentavano alla giustizia e dove si offrivano i sacrifici a Dio. Quando finalmente l’Arca dell’Alleanza trovò la sua collocazione in una struttura permanente nel Tempio di Gerusalemme, questo era il luogo più sacro dell’intero tempio, cui soltanto il Sommo Sacerdote poteva accedere.
Sinai è il titolo di uno dei quadri in mostra, un duplice dipinto che illustra, a destra, due ebrei del Medioevo con i tipici copricapi a punta sullo sfondo di ciò che sembra un deserto, e, a sinistra, il paesaggio di un luogo che assomiglia a un campeggio. Il deserto del Sinai, località dove gli Israeliti diventarono un popolo con una lingua, una cultura, una storia e una fede comuni, il luogo dove hanno perso la vita in futili guerre centinaia di israeliani (e molti egiziani), è oggi per loro un popolare resort, un luogo dove possono fuggire dalla routine e dalle avversità della vita quotidiana per godersi una vacanza rilassante a un prezzo accessibile. La guerra del 1973, la più difficile vissuta dagli israeliani, quando per la prima volta hanno sentito la presenza di una vera minaccia esistenziale per il loro paese, è stata combattuta quasi tutta proprio in questo luogo; e forse un accenno di questa ansia è ravvisabile nella piccola stella gialla, che l’artista ha inserito ai piedi delle figure nel quadro, con la sovrascritta Jude, così strettamente legata all’Olocausto.
Merman ha continuato con, e perfino intensificato, la pratica delle divisione in due della tela, fino al punto da sembrare due dipinti separati, legati assieme a mo’ di dittico, forse a suggerire o ricordare discretamente, che ogni storia ha (almeno) due facce, o perfino interpretazioni opposte. Sebbene sia possibile “leggere” questi quadri gemelli come anche uno separato dall’altro, uniti le loro storie, essi diventano più complessi, mentre il contesto così creato aumenta le possibilità interpretative del/dei dipinto/i. Per esempio, una coppia di giovani amanti sulla spiaggia nell’opera Black Sea (Mar Nero) ha la capacità di evocare esperienze piacevoli nella nostra memoria o di richiamare alla mente la biografia dell’artista, che spesso passava la sua gioventù sulle rive del Mar Nero, ma affiancato al quadro No Peeping, Dad (Non Sbirciare, Papà) – che preso da solo si può interpretare come un gioco tra genitore e figlio – le due opere insieme si riflettono a vicenda, suggerendo sensazioni di proibizione e occultamento, persino di minaccia (gli uccelli neri nel quadro a sinistra ricordano il capolavoro cinematografico di Alfred Hitchcock), o indicando rapporti complessi tra gli adolescenti e i propri genitori.
Il coinvolgimento dell’artista con il giudaismo, sia come componente religiosa che di identità nazionale, e i suoi rapporti con le nazioni gentili e le sue interazioni con l’antisemitismo nell’intero corso della storia, sono riflessi anche in dipinti che potrebbero di primo acchito sembrare fuori contesto. When You’re Dead, You’re Dead! (Quando sei morto, sei morto!) è una pittura di questo genere, ispirata alla copertina di un vecchio libro di fumetti (Lois Lane – Superman’s Girlfriend). Merman ha sostituito l’iscrizione originale in calce alla copertina (donde viene il titolo del quadro) con una traduzione yiddish che inserisce l’iconica figura americana in un contesto ebraico. L’immagine di Superman, che porta in braccio una donna morta, ricorda le opere d’arte cristiane della Pietà con i ruoli invertiti tra i generi, e al tempo stesso la fissazione americana, in anni recenti, sulle radici ebraiche di Superman, dei suoi creatori ebrei e sulla preoccupazione, secondo cui il personaggio sarebbe una reazione ebraica all’oppressore nazista. Secondo alcuni ricercatori, l’immagine di Superman fonde personaggi biblici e ebraici come Mosè, Sansone e il Golem di Praga – tutte personalità, che simboleggiano la redenzione e il soccorso.
Ho già parlato della fusione dei concetti di “personale” e “nazionale” nell’opera di Merman: ne è un ulteriore esempio l’opera installata nel giardino, fuori dai muri del museo. Una vecchia tenda, completa e priva di interventi pittoreschi, ha trovato il suo posto nello spazioso giardino. L’osservatore acuto noterà la data sbiadita di produzione stampata sulla tenda – 1945 – un anno che simboleggia la fine di una delle guerre più tragiche della storia umana, la conclusione – troppo tardi – della Shoah, del genocidio degli ebrei europei, e la vittoria del bene sul male. La tenda solitaria spicca nel suo ruolo di ospite poco gradito, come una persona, cui non sia permesso entrare in casa. Quest’opera richiama i soggiorni in tenda negli anni di gioventù dell’artista, nonché il servizio militare da lui prestato nell’esercito sovietico prima della dissoluzione dell’Unione Sovietica, ma al contempo ricorda l’essenza della vita in Israele, dove due nazioni esistono l’una accanto all’altra: l’Israele sovrana accanto alla Palestina priva di definizione e status politici. E ciò, naturalmente, allude anche gli insediamenti ebraici permanenti o temporanei che siano, nel cuore dei territori palestinesi, sotto l’egida della legge o della forza. È questo il dilemma morale che affrontano gli israeliani ogni giorno: l’esigenza esistenziale di uno stato che sia grande e abbastanza forte per ospitare ogni ebreo nel mondo che ivi desidera immigrare, di fronte alle giuste aspirazioni nazionali dei palestinesi, sia per chi vive all’interno delle frontiere dello Stato d’Israele, che per chi al di fuori di esso, compresi i rifugiati disseminati nei paesi arabi limitrofi.
Ilan Wizgan, 2023.
Ilan Wizgan
Ilan Wizgan è commissario di esposizioni indipendente operante in Israele, attivo anche sulla scena internazionale. Prima di curare il padiglione israeliano della Biennale di Venezia nel 2011, egli ha ricoperto diverse cariche all’interno di importanti istituzioni israeliane, quali l’Israel Museum a Gerusalemme, il Museo di arte israeliana di Ramat Gan (Museum of Israeli Art) e la Biennale Art Focus di Gerusalemme. Egli ha fondato, essendone contemporaneamente direttore artistico, TRACES – la prima Biennale di opere su carta a Gerusalemme (TRACES Biennial of Works on Paper) nel 2002, ha curato esposizioni tematiche, quali Urban Tales a Tel Aviv, installazioni video in spazi aperti (2006), The Cypriot Case nella Gallery and Artists’ Residence a Herzliya (2005), nonché Nel nome del luogo, nel nome della terra (In the Name of the Place, in the Name of the Land) alla Artists’ House a Gerusalemme (1998). Egli è stato pure curatore per molte esposizioni all’interno delle Biennali di Venezia, São Paulo e Istanbul.
Fino ad oggi, Ilan Wizgan ha curato innumerevoli esposizioni personali e collettive in Israele, Stati Uniti d’America e Olanda. Egli fa regolarmente parte di giurie e comitati, e opera in veste di docente e critico invitato nell’ambito delle Accademie d’Arte in Israele.
Dove
MACT/CACT
Museo e Centro d’Arte Contemporanea Ticino
Via Tamaro 3, Bellinzona.
Orari
Venerdì, sabato, domenica
14:00 – 18:00
Ingresso
CHF 6.00