I Fiori del male di Cesare Baracca (1965) / Testo di Mario Casanova

Sans titre (Les Fleurs du mal), 2020. Dialogo con sé stessi attorno all’opera di Cesare Baracca.

Risale al 1857 la pubblicazione dei pezzi lirici Les Fleurs du mal, raccolta di piccoli poemi scritti dall’autore francese Charles Baudelaire (1821-1867). L’anno prima (1856) nasce Sigmund Freud e, ancor prima, l’odore di Jeremy Bentham nell’Inghilterra vittoriana si faceva sentire.

La seconda metà dell’Ottocento è particolarmente interessante per un secolo, che tenta di liberarsi dal fardello della stagnazione e del declino delle grandi aristocrazie, attraversando il corridoio del decadentismo, per diventare un trampolino di lancio verso il nuovo che si sta disegnando. Una brezza di cambiamento e di catarsi stanno arrivando silenziosamente, e il secolo XX delle rivoluzioni classiste, di cui la Francia è una nazione-esempio, porta con sé gli sconvolgimenti civili per i diritti e le libertà repubblicane centrate sul bene comune.

Un rinnovato modo di fare letteratura trova paralleli anche in ambito pittorico e musicale. Gli Impressionisti francesi e, più a sud, in Italia, i Macchiaioli, che già in quegli anni sperimentavano, appunto, la macchia e l’impressione in equilibrio tra oggetto e soggetto, sono il segnale di un turnover che amoreggia con la volontà di ridare un senso alla società delle genti anche attraverso un cambiamento pop della produzione artistica. Il transito verso il duchampismo del primo Novecento ricreerà poi un totale ribaltamento dell’oggetto nella introspezione.

La Belle Époque e l’Art Nouveau, movimenti a cavallo del secolo e forgiati dalla volontà di una metamorfosi societale, seducono il quotidiano e diventano stilemi comuni e diffusi anche nella realtà di tutti giorni. E per una volta ancora, l’arte viene applicata alla vita, dando i natali a uno stile diffuso e pregno di bello e di edonismo, e di apertura verso il piacere e la conoscenza: processi globali e avanzati, questi, che si svilupperanno per induzione nel segno della ricerca, dell’analisi e dei processi di soggettivizzazione, nonché di acquisizione di una consapevolezza sociale collettiva, grazie non solo all’apporto della politica e del coinvolgimento civico, bensì anche delle arti e del pensiero, iniziando così a una serie di rivoluzioni stilistiche centrate sulla ricerca d’identità della persona all’interno di un determinato contesto sociale ed epocale: il tempo repubblicano porrà altre problematiche relate alla risoluzione dei disagi rimasti in sospeso. L’Ottocento ha rappresentato il laboratorio di preparazione e sperimentazione per la creazione di una società del futuro, che vedrà la sua idea di modernità – anche tecnologica – nel Novecento. Solo con l’arrivo dei fascismi negli anni 1920-1930, tutto il lavoro per la costruzione di una intelligenza artistica, sociale e civile, diverrà vano. E così, immediatamente, tutto svanì con la violenza e la cultura dell’ignoranza.

Baudelaire, così come tante altre personalità attive in diverse discipline – da quella scientifica fino all’ambito sociologico-antropologico –, rappresenta con largo anticipo lo snodo che apre le porte al Secolo breve; secolo tanto creativo quanto terribile ma ancora poco studiato, e attualmente sepolto dalla prevaricazione del mercato globale.

Tali momenti quasi limbici di passaggio tra un’epoca e l’altra incarnano e bene illustrano le importanti sperimentazioni apparentemente prive di punti d’appoggio stabili, e sempre in bilico tra decadenza e desiderio di sopravvivenza, tra corpo e concetto. Essi rimangono cristallizzati ancora nell’oggi come elementi fondamentalmente necessari alla maturazione e allo sviluppo, affinché non prevalga la palude del pensiero unico e debole, tipico di una società in declino e succube delle proprie ambizioni.

Questo prolifico periodo, peraltro già ravvisabile nel corso del secolo XIX (e che ancora suggerisce punti di contatto e similitudini con la nostra post-contemporaneità), si svilupperà vieppiù a cavallo tra Otto- e Novecento, facendo confluire in zone energetiche importanti autori forti ma ribelli e “maledetti”, che sapranno togliere i veli a una società borghese di primo pelo, svelandone i punti deboli e le fragilità, e aprendosi a luoghi psico-geografici, cloache di sperimentazione esistenziale in osmosi con il mondo in perenne ridefinizione e a tratti ostile. La forza di queste lacerazioni crea, tuttavia, finestre verso una vera e propria filosofia, le cui radici porteranno a un radicale desiderio di cambiamento, come lo furono i fenomeni non tanto isolati dei movimenti socio-culturali in antitesi con il potere politico dominante, tanto sperimentali da toccare la radicalità della Lebensreform; quasi come se tale ricerca fosse l’ultimo emblema di una nuova religione o filosofia di vita.

La nascita di forme simbiotiche tra Nord e Mediterraneità, tra uomo e ambiente circostante, tra terra e cielo, si pone al centro di ogni cosa e sopra di essa. E il viaggio – vero o simbolico –, come lo fu per Turner, Schubert, Gauguin, Böcklin, lo stesso Baudelaire, e tante tante altre personalità di pensiero di fine secolo verso la (ri)scoperta di un genius loci congeniale, della luce e di una alterità imprescindibile, tenta di (ri)creare una forte dimensione individuale ed esistenziale in pace con il comunismo sociale, con la fantasia e l’improvviso. La ricerca dell’utopia di un mondo che non c’è costituisce per il poeta francese il suo eterno “mal de vivre”, quello di un lupo della steppa senza tempo e sempre in transito, infinitamente senza meta.

La storia scritta non è fatta di casi isolati, ma di situazionismi contestuali; e probabilmente, senza una concomitanza e concertazione di avvenimenti casuali o causali, Baudelaire solo non sarebbe sopravvissuto.

L’arte, come forma volgare di una valvola di sicurezza filosofica, sarà l’amara tavolozza, che gli permetterà di andare oltre, anche, nella scrittura, al di là della vita reale e dei colori di quella ideale, motore della visione di un artista bruciante, instancabile e inarrestabile. Au-delà du possible, au-delà du connu è l’accesso a un simbolismo legato al viaggio mentale e dell’inconscio, una chiave di lettura della potenza della verità di fronte al potere del reale, dove si sfuocano le linee d’orizzonte e divengono le forme quasi esoteriche, mistiche e chimeriche nella percezione mnemonica e atavica dell’universo, sempre alla ricerca del rimosso potente, entro cui l’uomo in simbiosi e in dialogo con la Natura è una piccola particella del Cosmo.

Sono situazioni storiche, queste, che anticipano e fanno nascere una buona parte di quei fuoriusciti, perennemente ai margini della convenzione ma liberi, rivoluzionari e in contrapposizione alla continuata e martellante instaurazione di una politica di regime per un nuovo sfruttamento sociale. Essi sono testimoni attivi di un fermento tra l’impossibilità di fermarsi a guardare il passato e l’incapacità spasmodica ed estenuante di delineare i contorni di una società futuribile e imprecisa. Il magico e l’altrove, l’esorcizzante, la creazione di una nuova religione di vita e di un’esistenza parallela fecero nascere molte comunità riformatrici, quali il Monte Verità ad Ascona, fino ad arrivare ad altre (ir)realtà sparse non solo nel nord dell’Europa, bensì anche in Italia, seppur rimosse, quest’ultime, dall’oblio storico.

Les Fleurs du mal raggiungono un punto letterario alto e vigoroso della carriera dell’autore, poiché Baudelaire sviluppa e tocca, attraverso una poesia evocativa e simbolica, temi legati all’analisi, all’enigma e alla pressoché totale rimessa in discussione dell’esistenza stessa, di cui era pregno questo spaccato storico. Altre presenze lungimiranti e fastidiose come Freud, Nietzsche o altre, non potrebbero non essere citate, proprio per il contributo ch’esse diedero alla riconfigurazione di una consapevolezza individuale all’interno della società.

E col tema del “male”, in totale contrapposizione con, invece, le radiose e, a tratti, superficiali tematiche impressioniste, è come se Baudelaire e altri suoi coevi o colleghi come Poe, Rimbaud o Redon, avessero, in qualche modo, immortalato il disagio e il crepuscolarismo, anticipando il successivo movimento dei Fauves: quegli stessi autori selvaggi, che grideranno in seguito il loro disagio sociale, condividendolo con la Germania, e pittando il dramma condiviso, con la rielaborazione angusta della prospettiva e il ribaltamento dei colori, entro un Espressionismo capace di riassumere l’acuirsi degli eventi prodotti dalla nevrosi di un Novecento europeo isterico e poco stabile.

Ed è proprio nell’analisi tormentata e convulsa dentro di Sé e dietro l’Io, che Baudelaire anticipa e raffigura analiticamente il Male come dolore angosciante tra accettazione e abnegazione esistenziale per chi lo subisce, e dall’altra la perdizione nel piacere quasi perverso e autolesionista di chi lo infligge. Tale approccio di pensiero bene si riflette nelle sue opere, dove il viaggio, la partenza e l’abbandono rappresentano la fuga e il disagio. Che siano state le Isole Mauritius o la dimensione “oppiacea” e psichedelica, cui – tra l’altro – si avvicinò anche Freud all’interno dei suoi studi attorno all’esistenza dell’inconscio, esse costituiscono la matrice, che lo inseguiranno durante tutta la sua produzione artistica.

Se Nietzsche riesce a scrivere lucidamente del sentimento del “male” – o dell’abbiezione in generale, come elemento antropologico e ineluttabile dell’essere umano subordinato alla fatalità della propria cultura religiosa e tribale –, ecco che il concetto di arbitrio, fino ad arrivare alla formulazione di banalità del male, cambia totalmente in Arendt; così come altri ne studiano i profili e i parametri in maniera diversa anticipando alcuni tratti legati alla psicoanalisi e all’antropologia.

No, sarebbe forse il male solo una frustrazione reattiva al dolore e il disagio provati e subìti?

Il parallelismo, che Cesare Baracca (1965) inizia a creare nel dialogo con Baudelaire e col suo universo, non cade dentro un citazionismo lezioso, …se mai lezioso lo sia stato anche solo una volta nella sua breve esistenza il poeta francese.

L’opera di Baracca affonda le radici prevalentemente e intensamente nel mezzo pittorico, in modo verace, con cui egli opera scelte stilistiche apparentemente ambigue e a tratti discordanti dal punto di vista della fedeltà allo stilema. In realtà, nella finestra di dialogo tra significante e significato, il suono si manifesta a noi attraverso diverse differenziazioni o modulazioni nel momento stesso della sua produzione, nell’atto del farsi, dove la tecnica o il tecnicismo non rimangono che un mero strumento al servizio del senso delle cose e dell’artista, ch’egli intende trasmettere attraverso la gestualità del proprio corpo. Ed è proprio questa estensione corporale ma in totale contatto con la mente, sua complice, che rende il lavoro di Baracca unico nella sua fedele eterogeneità e apparente incoerenza.

In tempi di trans-contemporaneità, dove nulla sembra davvero così coerentemente moderno e attuale come lo fu, invece, negli anni dominati dalle avanguardie la fedeltà allo stilema, la connotazione storica per periodi stilistici non incarna più un teorema, che si è fortunatamente dissociato dalla Storia stessa. La confusa fedeltà a dei valori espressi da una società in declino, smarrita e disorientata dall’impalpabilità ma dal sapore piacevolmente propiziatorio e anticipatore del domani, bene si salda con la volontà dell’artista di dare un senso prima alla rappresentazione che alla sua immagine.

Anch’egli in equilibrio tra luce e ombre, ecco che Baracca legge e vede nel poeta maledetto lo spunto per ridefinire parallelismi inesorabilmente legati a un tempo senza contorni, inibito da un impatto sordo e sottilmente inefficace causato dall’uomo al mondo circostante: come se la fatalità e il fatalismo finissero per rappresentare sempre un destino ingiusto e doloroso. Cesare Baracca ripercorre con impertinenza e sensualità i valori universali di noi tutti, liberandoli con anche insolenza al mondo che li contempla.

È una sorta di grido, il suo, contro l’omologazione di una società ormai vecchia, che nulla divora, cannibalizza e rielabora, se non il ricordo della propria tenue illusione “rivoluzionaria”, se mai di vere e proprie evoluzioni socio-politiche accadute negli ultimi decenni si possa argomentare. Leggendo la sua opera, in generale, Baracca ci pare ogni volta e in ogni momento diverso da sé stesso, proprio grazie al suo gesto pittorico funzionale prima che banalmente meccanico; la sua matrice stilistica mai si antepone alla sua ricerca interiore e alle nuove morfologie dell’anima.

L’esercizio all’interpretazione è sempre un difficile momento, da molti punti di vista, e un arduo compito. E la restituzione della sua personale lettura dei Fiori del male non può essere ancora una volta che anti-reale. Tuttavia, l’artista lo fa con dando un senso intimo ma plurale al suo lavoro pittorico, come se la sua verità fosse anche quella personale, intima e piacevolmente lorda di ognuno di noi. E non sembra nemmeno casuale, che nell’ouverture Au lecteur, Baracca abbia deciso con determinata insolenza di autoritrarsi, quasi l’assimilazione e la pregnante dimensione metamorfica lo abbiano spinto a prendere i panni di Baudelaire, quasi si fosse, egli stesso, fatto eroico e responsabile lettore e interprete del proprio e del comune disagio.

All’interno di una dimensione tra sacro e sacrilego, dove la benedizione e la concezione quasi religiosa e fatale dell’universo si trasformano, a intervalli, in imprecazione, Cesare Baracca non intende rifare o citare l’estetica dei piccoli e preziosi poemi baudelairiani, quanto piuttosto di farli suoi e riviverli in prima persona, passando da una presa di possesso a un vero e proprio trasferimento di personalità attraverso la tentazione esperienziale.

L’approccio totale e totalizzante, che il pittore ci restituisce nella sua lettura visiva dei Fiori e dal suo incontro con il poeta, si interseca e si intrinseca con lo spirito magmatico e di fusione del mondo di adesso, di allora, di sempre e di domani, poiché i Fiori del male sono anche l’origine di un esistenzialismo scomodo, che segna l’umanità tutta e da sempre. E se nelle Correspondances, l’uomo perde la sua caratteristica filosofica per unirsi – nella modalità di mise à nu e mise en abîme – carnalmente e mentalmente all’universo selvaggio e ideale che lo circonda, nella Géante, Baracca non smentirà mai la sua consapevolezza antropologica, che il reale è un volgare quanto seduttivo modo di confrontarsi con la propria dimensione corporale, prigione dorata dei sensi e della perdizione, limite a oltranza in un infinito esistenzialismo che ci accoglie e che ci ascolta; noi, orfani di una società intransigente e sorda alle nostre verità e desideri individuali.

L’elemento di disturbo, che contraddistingue e accomuna i due autori fino a rappresentare, sempre e comunque, l’eterno peregrinare dell’uomo alla ricerca di un senso delle cose esistenziali tra enigma della nascita e consapevolezza della morte, si materializza in quel teatro dell’assurdo tra noi e l’Infinito: un elemento di fragilità, questo, che, sempre e comunque, ha alimentato la dimensione dogmatica del potere forte e assoluto, caratteristica indiscussa di ogni regime politico e fascista.

Mario Casanova, 2021.

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